La cantina che ha reso famoso il Sangiovese di Romagna alza il sipario sul primo vino della vendemmia 2020: il Lunaria – Sauvignon Blanc. Si tratta di un vino fresco e di grande piacevolezza che rappresenta l’anima più "spensierata" di Ronchi di Castelluccio, ideale anche e non solo per i brindisi estivi. Il Lunaria sorprende per classe ed eleganza a partire dall’etichetta e dal nome che fa riferimento alla pianta erbacea comunemente chiamata erba luca, simbolo di onestà e chiarezza.
Negli anni Settanta fu già il regista Gian Vittorio Baldi, fondatore di Ronchi di Castelluccio, a sperimentare la vinificazione del Sauvignon Blanc in purezza con uno stile completamente diverso da quello degli altri vini italiani dell’epoca: fu una delle scommesse più azzardate di Ronchi di Castelluccio, ma anche uno dei suoi più grandi successi.
Oggi il Lunaria di Ronchi di Castelluccio si ripresenta con una rinnovata etichetta concepita per esaltare la bellezza botanica di questa pianta spontanea che colora la primavera con i suoi fiori viola e l’estate con i suoi frutti a forma di piccole lune di colore argento.
Lunaria: vinificazione e note di degustazione
Sauvignon Blanc in purezza prodotto dalle vigne più giovani di Castelluccio, Lunaria è un vino che non svolge macerazione, con fermentazione in cemento ed affinamento esclusivamente in acciaio. Di un bel color giallo paglierino con riflessi dorati, il Lunaria al naso gioca su note fruttate e complesse di albicocca e rosmarino, con tocchi di macchia mediterranea. All’assaggio risulta teso e croccante, sapido, con ritorno fruttato-officinale. Un vino che lascia il segno, dal finale molto persistente, fresco e al contempo di ottimo corpo e, soprattutto, grandissima personalità.
I sentori peculiari del Lunaria lo rendono un vino altamente gastronomico, adatto anche a un abbinamento insolito per un Sauvignon Blanc, con crostini con baccalà mantecato su una purea di basilico.
Annata in commercio: 2020
Numero di bottiglie prodotte: 4.000
Costa 9 euro
Ronchi di Castelluccio
Gian Vittorio Baldi, lughese di nascita, è regista e produttore acclamato in tutto il mondo. Vive a Roma, anche se si tratta del classico intellettuale cosmopolita. Nel 1969 si sposa con Macha Méril, attrice francese figlia di un principe russo, di mestiere agronomo e viticultore, musa di Buñuel e Dario Argento. In viaggio di nozze Baldi rimane folgorato dallo Château Lafite-Rothschild. Gli sembra incredibile che il vino possa essere concepito come prodotto intellettuale, anzi, come opera estetica. Tra un film e l’altro inizia a muoversi per l’Italia alla ricerca di qualcosa, non sa ancora di preciso cosa. È alla ricerca di una location idonea per realizzare un progetto che gli gira in testa. Prima pensa alla Sardegna, ma poi l’investimento non decolla. Alla fine, mentre è sul set a Brisighella, si imbatte per caso nei terreni di quella che sarebbe diventata Castelluccio "cercavo un territorio di grande bellezza, che avesse storicamente una presenza della vite e che fosse né troppo vicino al mare, né troppo lontano", come ebbe a dire) e si innamora. Decide che il posto sarà quello. Come suo solito ha le idee cristalline, perché nel frattempo Baldi ha capito cosa sta cercando. Incredibile da credere, sta cercando un posto per fare vino.
Baldi è un artista purosangue, abituato agli alti coefficienti di rischio. Regista che non ha paura di raccontare verità scomode, produttore, tra gli altri, del celebre e controverso "Porcile" di Pier Paolo Pasolini, parte dall’idea maturata negli anni di militanza intellettuale: in quest’ottica c’è tutto il senso di quello che sta cercando. Rimane folgorato dalla potenza enoica espressa in luoghi ‘sacri’ come Château Haut-Brion e Château d’Yquem, dove si è recato quasi in pellegrinaggio. Istantaneamente capisce quello che non funziona nei vini italiani, e di conseguenza nei vini romagnoli, regolarmente snobbati dalle carte dei ristoranti che contano. È un problema di prospettive, in Italia vige ancora una logica contadina: non si tratta di prodotti realizzati secondo idee originali o ambiziose, sono vini senza pretese, artigianali nel senso peggiore del termine, in gran parte pensati per l’autoconsumo. In sintesi, troppa quantità e poca visione, come in quei lungometraggi ‘commerciali’ che nella sua carriera ha regolarmente snobbato. Realizza che i grandi vini non sono mai prodotti del caso, anzi, sono figli di una programmazione scientifica, stilistica e idee rigorose, spesso radicali, scelte che riguardano territorio e vitigni.
In Italia, figurarsi in Romagna, nessuno la pensa come lui. Eppure Baldi crede nel territorio, anzi, in quel territorio, quei Ronchi che da piccoli fazzoletti di terra strappati al bosco, nascondono smisurate potenzialità. C’è da dire che a metà degli anni ‘70, al di là della triade Toscana-Piemonte-Friuli, forse del Veneto, il resto dell’Italia vitivinicola è un coacervo di sottozone la cui potenzialità è ancora da comprendere. Forse Mario Soldati è stato il primo a capirlo, ma il suo lavoro di semina è ancora lontano dal produrre frutti. Baldi decide che è il caso di approfondire: con il supporto dell’indimenticabile Luigi Veronelli, grande amico di suo fratello giornalista, si convince che la vocazione del territorio si debba esprimere attraverso la zonazione, cui dedica molto del lavoro preparatorio di Castelluccio. A parcelle diverse corrisponderanno cloni diversi, come già succede in Francia, dove la concezione del cru risale, beati loro, al 1800. A Castelluccio i cru diventano i Ronchi.
L’idea di puntare alla migliore qualità possibile, senza imporre limiti creativi a nessuno dei professionisti con cui collaborerà, è il principio stesso della fondazione di Castelluccio. Insieme a considerare lo stesso vino come un prodotto artistico. Baldi, non a caso, sceglierà i sodali tra i giovani più antidogmatici e talentuosi della sua generazione. Per questo nel 1974, con l’intermediazione di una figura chiave come Gianfranco Bolognesi - poi patron della seminale Frasca di Castrocaro - appena eletto miglior sommelier d’Italia, arriva a Castelluccio un altro personaggio destinato a fare storia come l’agronomo Remigio Bordini, anche lui di origine lughese, direttore dell’azienda Sperimentale Naldi che a Tebano, sede staccata della facoltà di Agraria dell’Università di Bologna, sta lavorando al censimento dei cloni di Sangiovese allo scopo di ‘fabbricare’ la DOC. Con lui studia i terreni alla ricerca delle barbatelle più adatte da utilizzare.
Castelluccio, c’è da dirlo, è un piccolo miracolo di collocazione, adagiata nelle splendide colline fra Brisighella e Modigliana, a cavallo delle province di Forlì e di Ravenna, ad un’altitudine compresa tra i 253 e i 411 metri, con una pendenza che sfiora il 40%; è situata proprio sopra a quella che storicamente è chiamata “Vena del Gesso”, vasta area di calanchi formati dalla precipitazione dei sali di calcio dell’acqua quando, all’incirca sei milioni di anni prima, in quella zona c’era in mare. I sottosuoli, soprattutto, sono ricchissimi, composti di marna e calcare. Castelluccio segna l’inizio dell’appennino dove affiora la marnosa argnacca, i suoli perdono la conformazione argillosa e diventano sciolti, sabbiosi e poveri. La zona è circondata da vastissime formazioni boschive, ginestre, sorbi, giuggioli, ciliegi e melograni. Ci sono anche querce, castagni e faggi, con antichi olivi a completare il panorama, estremamente biodiversivo. In mezzo a loro, storicamente, viene coltivata la vite, proprio in quelle zone individuate da Baldi come parcelle ad altissima vocazione.
La Romagna appare a Gian Vittorio come una sorta di Jura, una Terra Promessa enoica: un’area dalla profonda vocazione che per oscure motivazioni non è mai riuscita a raggiungere l’affermazione che merita. Imperterrito prosegue nel lavoro. Decide di selezionare i cloni di Castelluccio tra quelli scartati per la DOC, scegliendo quelli che possono garantire risultati qualitativi migliori, a scapito della quantità. Quando nel 1975 inizia a piantare imposta il lavoro sugli impianti fitti e sulle basse rese, piantati a giropoggio come in Piemonte. Gli sembra una soluzione sensata. E poi farà come gli ha consigliato l’amico Gino, produrrà vini da singole vigne. È l’unica maniera di raggiungere i risultati che ha in mente. La stessa cura riservata al Sangiovese viene dedicata ad un vitigno che Gian Vittorio venera e che negli anni qui uscirà in letture incredibili, ovverosia il Sauvignon Blanc, che si decide di destinare al Ronco più disagiato: esposto, talmente impervio da risultare quasi impossibile da vendemmiare, con rese potenziali di meno di un ventesimo di quelle medie. Nasce il Ronco del Re.
Scelti i vitigni e i cloni, dal 1975 a Castelluccio vengono impiantati, anche qui con metodo scientificamente creativo, (ad esempio con uno strumentale rifiuto del rittochino):
- 8 ha circa di Sangiovese;
- 2 ha circa di Sauvignon Blanc;
- 0,25 ha ceppi antichi principalmente di Negretto
Ovviamente Baldi non si accontenta, perfezionista come è, tanto che fin dall’inizio (fa impressione pensare che siamo appena alla metà degli anni ’70) decide di dedicarsi ad un’agricoltura sostenibile. Inerbimento, vigneti lavorati a mano, concimazioni esclusivamente organiche. I pochi trattamenti effettuati sono a base di rame, zolfo, cake. Allevamenti a sperone o Guyot a seconda delle necessità delle viti, con piante tenute volontariamente basse. Queste attenzioni si traducono in rese minimali, che fanno rabbrividire anche oggi: 20/25 quintali per i rossi secondo le annate e addirittura 12 quintali per il bianco.
Quello di cui ci si accorge fin dalle prime vendemmie (la prima è per l’appunto quella del 1975) è che la produzione che esce dalla campagna è incredibile. Molti operatori che lavorarono a Castelluccio parlano della materia prima migliore con cui abbiano avuto a che fare. Densità, maturazione fenolica, caratteristiche del frutto. Anche in questo caso la qualità ottenuta non ha niente a che fare con scelte casuali, anzi. Si tratta di un lavoro realizzato con un obiettivo ben preciso, ovverosia ottenere il migliore vino possibile.
Anche per questo, in cantina vigono gli stessi principi della campagna. Si svolgono micro-vinificazioni separate, fermentazioni in acciaio o in grandi tini di rovere, con cura maniacale. Per l’affinamento si usano barrique di rovere, scelti dopo molte riflessioni tra quelli dalla tostatura meno invasiva, prodotti nel Massif Central. Dalla barrique si passa nuovamente alla bottiglia per un affinamento ulteriore, per garantire stabilità al prodotto finito oltre a longevità.
Il 1979 per Castelluccio è un anno fondamentale, che segna l’arrivo di un altro attore essenziale nella sua storia come Vittorio Fiore, enologo, che inizia il lavoro affiancandosi al giovanissimo Gian Matteo Baldi, secondogenito di Gian Vittorio, cui il padre, visto il precoce talento, ha affidato la cantina fin dalla prima vendemmia. Quando si parla di cantina in questo caso è improprio, perché Castelluccio in quell’anno non ha ancora locali destinati alla vinificazione di proprietà, tanto che utilizzerà gli spazi dell’Istituto di Tebano nel 1979 e quelli dell’azienda agricola dei fratelli Vallunga di Marzeno del 1980.
E così nascono le prime release, con bottiglie che (anche in questo caso in Italia nessuno ci aveva mai pensato), in casi di annate eccezionali portano il nome del cru e sono identificati con etichette ‘celebrative’: escono il Ronco del Casone e il Ronco della Ginestra nel 1979, poi Ronco del Casone, Ronco della Ginestra e Ronco dei Ciliegi nel 1980, insieme a due altri blend mai più prodotti, ovverosia il Solano Bianco e il Solano Rosso, infine la prima ‘batteria completa’ nel 1981, che è anche la data della prima vendemmia svolta nei nuovi locali, che si devono integralmente agli sforzi di Gian Matteo Baldi. Escono Ronco del Casone, Ronco della Ginestra e Ronco dei Ciliegi, più il primo Ronco del Re, le cui botti, dimenticate accidentalmente nelle cantine di Tebano, contengono una versione di Sauvignon Blanc che farà storia. Una volta completati i primi assaggi, peraltro, si realizza che quelli di Gian Vittorio e dei suoi collaboratori erano non sogni ma visioni profetiche, tanto le etichette sono stupefacenti, ai livelli non delle migliori bottiglie italiane ma addirittura di quelle internazionali.
Castelluccio così inizia la sua storia di successo e prestigio, sia all’estero che in Italia. Lo storytelling di Gian Vittorio è di valore assoluto, fa anche impressione il tocco ‘esotico’ dell’artista che fa vino artistico e lo fa meglio degli altri. Sono anni di successo fino al 1989, quando l’allontanamento volontario di Vittorio Fiore spezza in parte l’equilibrio di anni incantati. Segue un periodo difficile, tra il 1989 e il 1993, anche da un punto di vista finanziario, ma Gian Vittorio e soprattutto Gian Matteo decidono di resistere. Per combinazione proprio nel 1989 arriva Attilio Pagli, giovane enologo toscano di cui si dice un gran bene. Nel 1990 esce il suo primo vino ‘a firma’, che è il Ronco della Simia, che un po’ per la storia affascinante che si porta dietro, un po’ perché si tratta di un vino gustativamente clamoroso, si trasforma in un altro grande successo per Castelluccio. Dopo un ventennio alla guida, peraltro, nel 1996 Gian Matteo se ne va, alla ricerca di una sua collocazione professionale, iniziando una carriera di enologo-direttore di cantine di grande successo. Anche Attilio Pagli se ne va nel 1998, anche lui diventerà uno degli enologi italiani più famosi di sempre.
Nel 1999, a sorpresa, 10 anni dopo la sua uscita di scena, Castelluccio diventa di proprietà della famiglia Fiore. Nei 10 anni successivi si modernizza, realizzando etichette che vanno più incontro al gusto del pubblico, letture se vogliamo più ‘facili’, che se in parte tradiscono le visioni degli esordi ne rileggono in chiave moderna i presupposti, conservando memoria storica dei Ronchi nelle etichette. Un sogno che prosegue fino ai nostri giorni, quando Castelluccio che (ora lo possiamo dire con l’avallo della Storia) è stata una delle pochissime utopie vitivinicole realizzate, è pronto ad entrare in una nuova fase della sua vita.
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